Una città dei vivi presuppone una città dei morti, e la capacità di distinguerle. Quale sia l’una, quale l’altra, e dove ci collochiamo, è una questione complicata, raramente definita.
Luca Varani ha 23 anni, vive in periferia, è aiuto carrozziere e guadagna poco. Ha una fidanzata, ma frequenta anche una seconda compagnia di amici, che a lei non piacciono. Occasionalmente, per arrotondare, si prostituisce.
Manuel Foffo e Marco Prato hanno superato i trent’anni da un po’. Al culmine di un delirante festino di droga, alcol, sesso, invitano Luca a casa, e lo uccidono con ferocia. Lo massacrano.
E’ l’inizio di marzo 2016, la vicenda esplode sui giornali e nelle televisioni, una pietanza appetitosa per ogni voyeurismo. Nicola Lagioia ne rimane colpito, e in seguito ossessionato. Inizia una indagine che durerà quattro anni e si concluderà ne “La città dei vivi”, uscito per Einaudi da poche settimane.
La mappa è un paradosso
Questo libro è un romanzo, è un’inchiesta, cos’altro? Lo diceva bene Giordano Meacci in una conversazione con l’autore che potete rivedere qui: è letteratura. Il compito della letterature è raccontare e capire, di sicuro non è quello di distribuire torti e ragioni, anche perché in questo caso vittima e colpevoli sembrano chiari da subito.
Certo, più ci si avvicina alle cose, più si riesce a costruire una mappa dettagliata degli eventi, delle psicologie dei protagonisti, delle testimonianze dei parenti e delle altre persone coinvolte, più ci si sente spiazzati. Ognuno propone ragioni, ognuno offre uno sguardo diverso, chi ascolta è disorientato. Una mappa è un paradosso: più è dettagliata meno serve a indicarci una strada; più particolari rivela, meno ci aiuta a muoverci. Una mappa richiede il giusto livello di astrazione. Una mappa che replica il mondo in scala uno a uno, per assurdo, porta alla paralisi.
Scorrendo le pagine, un passo dopo l’altro, entriamo nella mente dei carnefici, per quanto possibile. Li vediamo agire, li ascoltiamo pensare, registriamo la morbosità opaca del rapporto che li lega, la spirale di dipendenza che li lega progressivamente l’uno all’altro. I carnefici incuriosiscono.
Luca Varani, vittima molte volte
Luca Varani è la vittima. In senso materiale, è stato ammazzato dagli altri due.
E’ vittima perché non ha voce. Parlano gli amici, la fidanzata, i parenti, gli inquirenti e i giudici, parlano i suoi assassini. Parla il suo corpo martoriato in un letto. Lui non può più.
E’ vittima perché, maledizione, non riesci a non pensare che se non fosse andato lì, se non si fosse prostituito, chissà, oggi sarebbe vivo. Un meccanismo micidiale, quello della colpevolizzazione almeno parziale della vittima, così razionalmente inaccettabile, così faticoso da allontanare dai propri pensieri.
La colpa che non sappiamo riconoscere
Foffo e Prato sono due giovani uomini che vengono da – diciamo così – buone famiglie. Figlio di un ristoratore il primo, di un conosciuto manager culturale il secondo. Vivono vite molto diverse fra loro, accomunate dal risentimento nei confronti dei genitori, cui attribuiscono la colpa del loro tormenti esistenziali. Il primo si sente estromesso dal padre dalla gestione del ristorante di famiglia, e immagina di riscattarsi con il lancio di una startup tecnologica, senza successo. Lo immaginiamo cupo, bofonchiante, intontito. Il secondo vive organizzando eventi nei locali romani, soprattutto quelli della comunità gay. Istrionico, seduttivo e manipolatore, pare nascondere nella vitalità esibita il bisogno d’amore materno non corrisposto.
Nessuno dei due pare capace di assumersi la colpa di quanto fatto. Si accusano l’un l’altro, non tanto per una strategia processuale, più probabilmente per l’incapacità di fare emotivamente i conti con quanto accaduto.
I padri e le madri
I padri e le madri sono buoni soggetti a cui attribuire almeno parzialmente una colpa. Chi di noi può vantare rapporti con i propri genitori che non siano segnati da ferite malamente cicatrizzate. Per qualcuno, la cicatrice non si forma mai.
I Foffo e Prato appaiono deboli, travolti da una vicenda enorme, di cui non sono all’altezza. Nei racconti dei figli ne scopriamo debolezze e mancanze, forse cattiverie.
Leggendo ci aggrappiamo alla figura di Giuseppe Varani, popolano disperato e furente, che pure mostra parole di comprensione per i genitori degli assassini di suo figlio. Anche se non perdona che non lo abbiano chiamato. Per chiedere scusa, per farsi insultare, per dare un segno anche minimo: sono qui, non scappo. Ma sentissimo la voce di Luca, forse, cambierebbe anche il nostro sguardo su suo padre: non lo sappiamo, ne siamo certi.
Impossibile restare, impossibile fuggire
Per scrivere il suo romanzo, Lagioia percorre in lungo e in largo la città di Roma. Una città che è forse la voce più potente nel coro dei personaggi. Un luogo in “mite sfacelo”, una città insieme dei vivi e dei morti. E il confine è mutevole, come un fiume limaccioso che ondeggia, scoprendo e nascondendo ora questo ora quello. Dove vivi o morti siamo tutti, dipende dai momenti e dalle occasioni. Una città da cui Lagioia fugge, una città a cui non può non tornare. Come una madre che non sei capace di odiare, come una madre che odi per un disperato bisogno d’amore.